2I - Tra immagini e parole: il Quartiere degli Elementi

A cura di Marco, Mirco, Rita e Sabrina
 
PALAZZO VECCHIO

Palazzo Vecchio si trova in piazza della Signoria a Firenze Rappresenta  l'architettura  trecentesca.
Chiamato in origine Palazzo dei Priori o Palagio Novo, divenne nel XV secolo Palazzo della Signoria, dal nome dell'organismo principale della Repubblica fiorentina; nel 1540 fu chiamato Palazzo Ducale, perchè il duca Cosimo I de' Medici ne fece la sua residenza. L'aggettivo "Vecchio" fu aggiunto nel 1565 quando la corte del duca Cosimo si spostò nel "nuovo" Palazzo Pitti. 
Oggi vi si trova un museo, che permette di visitare le magnifiche sale con affreschi dei piu importanti pitori del '400-'500, come Agnolo Bronzino, Ghirlandaio e Giorgio Vasari, e alcune opere di Donatello e del Verrocchio.

GIORGIO VASARI
Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511 – Firenze, 27 giugno 1574) è stato un pittore, architetto e storico dell'arte italiano.  Costruisce grandi cantieri a Firenze e in Toscana, tra cui spiccano la costruzione degli Uffizi, la ristrutturazione di Palazzo Vecchio e il corridoio vasariano. La fama maggiore del Vasari oggi è legata al trattato delle “Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani” e i “Ragionamenti”


QUARTIERE DEGLI ELEMENTI
Questi appartamenti consistono in cinque sale e due loggiati, le decorazioni furono portate a termine da Vasari.
Il secondo piano era dedicato agli dei celesti (Giova, Saturno, Cerere, Opi, Venere, Vulcano, ecc.) con rifererimenti agli dei terreni (Cosimo dei Medici, Lorenzo il Magnifico, Leone X, ecc.). Le pareti delle Sale degli Elementi sono riempite con affreschi allegorici.

Nella prima stanza, la Sala degli Elementi, si posso notare le allegorie degli Elementi Acqua (Nascita di Venere), Terra (Primizie della Terra offerte e Saturno), Fuoco (Fucina di Vulcano).
Il soffitto è decorato con l'allegoria dell'Aria, con al centro Saturno che mutila il cielo.
Tra le finestre sono affrescati Mercurio e Plutone. Il maestoso camino fu disegnato dall'Ammannati.

Nella seconda sala, detta Sala di Opi, si trova l'affresco con il Trionfo della Dea Opi (divinità talvolta identificata con Cibele).
Sul soffitto si trovano le allegorie dei Mesi e delle stagioni.

Sala di Cerere, che prende il nome dalle decorazione del soffitto. Il successivo Scrittoio di Calliope è decorato sul soffitto la finestra ha una vetrata originaria con Venere acconciata dalle Grzie tra la Fede e la Speranza.

La Sala di Giove ha un soffitto con l'affresco Giove bambino allevato dalle Ninfe e dalla capra Amaltea.

Il Terrazzo di Giunone è in realtà una stanza chiusa, ma, come suggerisce il nome, era anticamente aperta verso l'esterno.
Sulla volta è raffigurata Giunone su un carro trainato da pavoni. Alle pareti si trovano affreschi con Giunone, Giove e Io (a sinistra) e Giove Giunone e Callisto (a destra), mentre al centro si trova una nicchia dove si doveva trovare una statua di Giunone.

Sala di Ercole,  ha un soffitto a cassettoni con le dodici fatiche di Ercole (Ercole fanciullo che strozza i serpenti, al centro, Il toro di Creta, L'idra di lerna, Il leone Nemeo, Cerbero, Ercole che ruba i pomi delle Esperidi, Ercole e Cacoo', Ercole che soffoca Anteo e Ercole che uccide Nesso).

Chiude i quartieri di Cosimo la Terrazza di Saturno, bellissimo loggiato aperto panoramicamente affacciato su Firenze, che permette la vista verso piazzale Michelangelo, piazza Santa Croce e il Forte Belvedere.

Il soffitto è decorato da numerosi pannelli dipinti: Saturno che divora i figli, Infanzia, Giovinezza, Vecchiaia, Virilità, Saturno sbarca nel Lazio, Saturno e Giano edificano Saturnia e le Allegorie delle ore del giorno, oltre ai Quattro elementi negli angoli.

I RAGIONAMENTI DI GIORGIO VASARI

SALA DEGLI ELEMENTI

“G. Così questo mio disegno lo spartii in questa forma, perché volendo trattare de’ quattro elementi, in quella maniera però che è lecito al pennello trattare le cose della filosofia favoleggiando; atteso che la poesia e la pittura usano come sorelle i medesimi termini; e se in questa sala ed in altre vo dichiarando queste mie invenzioni sotto nome di favolosi Dei, siami lecito in questo imitar gli antichi, i quali sotto questi nomi nascondevano allegoricamente i concetti della filosofia. Or volendo, come ho detto, qui trattare delli elementi, i quali, con le proprietà loro avevano a dare a questa sala, per le storie che ci ho dipinto, il nome, chiamandosi LA SALA DELLI ELEMENTI, così in questo palco o cielo mi parve di dipignervi le storie dello elemento dell’Aria.

Saturno mutila il Cielo

P. Comincio già a scorgere parte della materia; ma, per vostra fè, di grazia ditemi un poco che cosa è questa che è in questo quadro grande di mezzo, dove io veggo tante femmine ignude e vestite?
G. Questa è la castrazione del Cielo fatta da Saturno. Dicono, che avanti alla creazione del mondo, mentre era il caos, il grande ed ottimo Dio deliberando di creare il mondo, egli sparse i semi di tutte le cose da generarsi, e poi che gli elementi fussono tutti ripieni di detti semi, ne venissi il mondo per quelli a diventare perfetto. Ordinato il Cielo e gli elementi, fu creato Saturno, che dal girar del Cielo si misura; il quale Saturno castrò il Cielo, e gli tagliò i genitali.
P. Benissimo, seguitate.
G. Quel vecchione adunque, ignudo a giacere con quello aspetto sereno, sì canuto, è figurato per il Cielo; quell’altro vecchio ritto, che volta le spalle e con la falce gira, è Saturno, il quale taglia con essa i genitali al padre Cielo per gettarli nel mare.
[…]


Il Carro del Sole e della Luna

G. Seguitano poi gli occhi del Cielo, che sono questi due quadri grandi, l’uno è il carro del Sole, l’altro quel della Luna.
P. Sta bene, ma io non intendo in questo del Sole oltre ai quattro cavalli alati, quello che significano quelle tre femmine che gli vanno innanzi, alate d’ale di farfalle.
G. Quelle sono le Ore, le quali son quelle che la mattina mettono le briglie ai cavalli, e li fanno la strada innanzi, e si fanno loro quelle ali per la leggerezza, non avendo noi cosa qua, che fugga più dinanzi a noi che l’ore.
P. Piacemi, ma dite, l’ore non son dodici il giorno, ed altrettante la notte? Molto ne avete fatte così tre?
G. Perché una parte sono innanzi, e l’altre gli vengon drieto, ché questa licenza l’usano i pittori, quando non hanno più luogo.
P. Voi m’avete chiarito.
G. Signor mio, non vi paia strano che innanzi che partiamo di queste stanze, ve le mosterrò tutte in un altro luogo. Il carro d’oro pien di gioie mostra lo splendore solare, e Febo, che sferza i quattro cavalli.
P. Ditemi ora, in questo quadro della Luna, molto ci avete fatto il carro d’argento?
G. L’ho fatto, perché il corpo della luna è bianchissimo, li poeti lo figurano così, e questo è tirato da due cavalli, l’uno di color bianco per il giorno, e l’altro nero per la notte, camminando la luna e di giorno e di notte, come La sa; e quell’aria, carica di freddo, mostra che dove la passa fa la rugiada; e però ho dipinto quella femmina che le va innanzi, che è la Rugiada partorita dalla Luna, e se li fa tener il corpo della luna in mano, mostrando quella parte di grandezza in che era quando nacque Sua Eccellenza, e con l’altra tiene il freno de’ suoi cavalli, guidandoli per il corso pari e leggieri; quel giovane bello, che dorme in terra, è Endimione amante della Luna.
[...]
P. Tutto mi contenta, ma passiamo a questi dua quadri lunghi, che hanno le figure sì grandi: che cosa è questo maschio, che si svolge da quel lenzuolo, e che ha la palla del mondo vicina e quello oriuolo da polvere?
G. Signor mio, quello è il Giorno, che dal carro del Sole è fatto luminoso, e si sveghia, e sviluppa dal sonno della Notte, la quale si vede qua in quest’altro quadro dirimpetto, che par che dorma con gran quiete, ché di questa ha cura il carro della Luna.

Nascita di Venere

P. Dio gli perdoni, che certo n’è stato danno; or veniamo a questa facciata, dove è questa Venere con tante figure; non so s’io mi ho visto la più vaga storia, né la meglio spartita di questa: che cosa è ella?
G. Dirollo a Vostra Eccellenza; doppo lo avere trattato dello elemento dell’Aria, viene ora questo dell’Acqua; e, per seguir la storia dico che, cascando i genitali del padre Cielo in mare, ne nasce, per il suffragamento, agitamento della calidità loro ed umidità del mare, quella Venere, la qual’è, come l’Eccellenza Vostra vede, in su quella conca marina tenendo con tutt’a dua le mani quel velo, che gonfiato dal vento gli fa cerchio sopra la testa; attorno gli sta la pompa del mare, con tutti questi Dei e Dee marine, che la presentano: e quell’altra femmina, che surge su del mare con quelli dua cavalli e ‘l carro di rose, è l’Aurora.
P. Mi piace; ma ditemi, chi è quel vecchio che guida imbrigliati quelli dua cavalli marini col carro, ed ha la barba umida, tutto ignudo, e tiene il tridente in mano, sì stupefatto?
G. Quello è Nettuno, dio del mare, il quale sta ammirato ed immoto a veder surgere dell’onde quella Dea tanto bella; l’altra dirimpetto a Nettuno, dico quella femmina ignuda ritta, che regge que’ mostri marini col freno, guidata da loro, è la gran Teti ammiratissima del nascere di Venere, ed è coperta con quel lembo ceruleo perché è madre del grand’Oceano. Quelli con le cimbe marittime, che suonano ed hanno il capo coperto d’erba, sono i tritoni; e quello, che gli presenta quella nicchia piena di perle e di coralli, è Proteo pastore del mare, parte cavallo e parte pesce. Glauco vedete che gli presenta un dalfino; così Palemone con gli occhi azzurri, dio marino, gli presenta coralli ed un gambero.
P. Ditemi chi è quella che volta a noi le spalle, ed è a cavallo in su quello ippocampo con quella acconciatura di perle e di coralli, che presenta quella nicchia piena di cose marine?
G. È Galatea ed il Pistro, vergine bellissima, gli è vicina, dal mezzo in giù mostro; e quella, che ella abbraccia, è Leucotea bianchissima ninfa; quelle che presentano porpore, e quelle chiocciole di madreperle, sono le Anfitritidi, e le Nereidi son quelle più lontane, che notando vengono a vedere tutti gli Dei e Dee marine presentare alla maggior Dea tutte le ricchezze del mare e contemplare nell’uscir fuori dell’onde, le bellezze di Venere.
P. Certamente credo che non si possa veder pittura più allegra e più vaga di questa nuova invenzione; che nave è quella che passa di lontano e par che guardi?
G. È la nave d’Argo, ed in sul lito sono le tre Grazie, che aspettano Venere, tutte tre coronate di rose vermiglie e incarnate, e bianche; l’una ha il plettro, l’altra la vesta purpurea, e la terza lo specchio: là nel mare lontano si vede il carro di Venere preparato da gli Amori, che, tirato da quattro colombe bianche, viene per levar Venere.
P. Più si guarda, più cose restano a vedersi; oh come mi piacciano quelli Amorini, che saettano per l’aria questi Dei marini! Ma più mi piace quel bosco di mirto pieno di quelli fanciulli alati, che fanno a gara a côr fiori e far grillande, e le gettano a queste ninfe, e ne fioriscono il mare; ma ditemi, che tempio è quello ch’io veggo nel lontano del paese, e quelle vergini e populo che stanno a vedere, e che aspettano in sulla riva?
G. È il populo di Cipri, che aspetta la Dea alla riva; e quelle vergini son quelle che già solevano stare al lito per guadagnar la dote con la virginità loro; ed il tempio è quello di Pafo, ricchissimo e bellissimo, dedicato alla dea Venere.

La fucina di Vulcano

P. Voi mi fate avere oggi un piacer grande, che mi par sentire e vedere queste cose sì simili e sì vere, che le tocco con mano; a chi volessi considerare ogni minuzia, ci bisogneria molto tempo; ma per ora seguitate (se non v’è a noia) a quest’altra facciata, dove è il cammino, che certo è molto bello; oh che mistio ben lustrato! Ogni cosa corrisponde; ditemi che storia è questa?
G. Questa è figurata per lo elemento del Fuoco; e per istare nella metafora, qui è anche Venere a sedere con quel fascio di strali, parte di piombo, e parte d’oro, come gli figurano i poeti; quel vecchio zoppo, che martella le saette in su l’ancudine, è Vulcano marito di Venere, e Cupido sta attorno tenendo in mano le saette per farle appuntate, ed intorno alla fucina sono quelli amori, che fanno roventi i ferri, altri le tempera, altri le aguzza, altri fanno le aste e le impennano, e altri amori, girando la ruota, le arruotano e fanno più belle.
P. Oh che pensieri, oh che immaginazioni! Le fanno venir voglia d’innamorarsi: deh, ditemi, chi sono quelli tre, che così spaventosi con i martelli fabricano a quella fucina?
G. Quelli sono i Ciclopi, che alla fucina infernale fabricano i fulmini a Giove, che uno è nominato Sterope, uno Bronte, e l’altro Piragmone; e, poi che sono finiti, gli porgono a quelli altri amori alati che sono in aere, che volando gli portano in cielo a Giove. Sopra queste due altre porte in quelli ovati che corrispondono agli altri, in uno è il padre Dedalo, che fabrica lo scudo d’Achille, l’elmo e l’altre armadure; nell’altro è Vulcano, che con la rete cuopre Marte e Venere sua moglie, abbracciati insieme, e tutti gli Dei in testimonio; per Vulcano si può applicare che così come nelle fucine e fabbriche si fanno le saette d’Amore, e fulmini per Giove, così il duca, nostro signore, messo dal padre Cielo a far con Venere le saette d’Amore; che intesi quando io la feci, che anche nella fucina del petto del duca si fabricano gli strali del benificar le virtù, che lo fanno innamorare, ed altri innamorare delle virtù di lui, i fulmini de’ Ciclopi per punire i tristi, come fa oggi Sua Eccellenza, nel petto del quale con giudizio punisce i rei e va premiando i buoni: uffizio veramente di gran principe. Il fabricar lo scudo e l’arme d’Achille mostra quanto a Sua Eccellenza piaccino l’arti eccellenti, nel fare ogni giorno a diversi artefici mettere in operazione macchine ed edifizi ingegnosi: e tenendo vivi con questi esercizi gli uomini eccellenti, viene a mantenere co’ premj le buone arti ed i belli ingegni, onorando la gloria sua e di questo secolo.
P. I significati son begli; ci resta Vulcano, che piglia Venere e Marte alla rete fabricata da Dedalo.
G. Questa è fatta per tutti coloro che troppo si assicurano al mal fare e con agguati vivono di rapine e di furto, che, inaspettatamente dando nella rete di questo principe, restano presi nel laccio.

Offerta a Saturno

P. Questa è così propria, quanto nessuna che fino ad ora n’abbia sentita; ma oramai è tempo che ci rivoltiamo al quarto elemento, che avete dipinto in questa storia di qua.
G. Questo è quello della Terra, madre nostra, utile e benigna e grande, la quale per l’abbondanza sua figurano gli antichi la Sicilia; nella quale isola, dopo la castrazione di Cielo, cascò la falce di mano al vecchio Saturno in su la città, dove oggi è Trapani, e vogliano che detta isola pigliassi allora la forma d’essa falce di Saturno, come quella vedete che ho dipinta qual casca su dal cielo.
P. Mi piace, e scorgo nel paese il monte d’Etna, Lipari, Vulcano in mare, che ardono: ma questa femmina maggiore, qua innanzi, con quella mina, o misura grande piena di grano da misurar biade, e quelle spighe nella destra, e nella sinistra mano il corno d’Amaltea, coronata di biade, che cose volete che sieno?
G. Questa, Signor mio, è fatta per la madre Terra, abbondante e veramente regina di questo paese, la quale ci ha insegnato in questo luogo a cultivare se medesima, così come Saturno, il quale vedete nel mezzo della storia ignudo a sedere, quale ha d’intorno uomini e donne d’ogni sorte, che gli presentano tutte le primizie della terra, così di fiori, frutti, oli, meli e latte, quali, secondo le stagioni loro, ricolgono dalla terra, e così i villani gli danno [in] offerta gl’istrumenti, co’ quali si lavorano i campi.
[…]

G. [...] Questa femmina grande, che surge del mare ignuda fino a’ fianchi con quel crino di capelli che gli vola davanti la faccia, e tiene con la sinistra quella gran vela, e con l’altra quella testuggine smisurata di mare, sapete che cosa ella è?
P. Io non la conosco, ma ditemelo.
G. È la fortuna di Sua Eccellenza, quale, per obbedire a Saturno, pianeta suo, gli presenta la vela e la testuggine, impresa di Sua Eccellenza, dimostrando che con la natura e tardità del cammino di questo animale, e la velocità che fa andare i legni nelle acque, la vela, nel mare delle difficultà, e l’essere Sua Eccellenza temperato sempre riuscire con buona fortuna in tutte le imprese del suo governo [...].
P. Ditemi il significato di questi dua ovati, sopra le due porte, che accompagnano gli altri.
G. Uno è Trittolemo, primo inventore di arare i campi, il quale, come Quella vede, ara; nell’altro è il sacrifizio della Dea Cibele, cioè Terra; vedetela, che l’è con quelle tante poppe per nutrire tutte le creature animate.
P. Ditemi il loro significato.
G. Per Trittolemo sono le fatiche degli uomini, seminando le ricolte, dinotano che di buon seme dell’opere virtuose, che nella terra semina, Sua Eccellenza ne ricoglie il frutto di quella fama severa e giustissima che ha Quella; oltre che con l’aratro del buon governo taglia e diradica tutte le piante maligne; di Cibele sono le provvisioni ed i donativi che Sua Eccellenza fa a tutti li suoi servidori, che egli ha e quanti per il suo dominio egli nutrisce e pasce giornalmente.

Mercurio
[…]
G. Ora voltiamoci a questa faccia, dove sono le finestre, e vedrò d’esser breve e fare fine a questa sala; dico così, che, poiché aviamo seguitato l’ordine de’ quattro elementi, e fatto menzione delli sette pianeti, come nel cielo lassù il carro del Sole, e della Luna; di Giove nel padre Cielo, di Venere nello elemento dell’Acqua, di Saturno in quello della Terra, di Marte nell’esser preso da Vulcano sotto la rete, ci resta ora da ragionare di Mercurio.
P. Io lo veggio qui fra queste due finestre col caduceo in mano, e col cappello alato ed i piedi.
G. Questo, Signore, ci mancava, perché essendo egli sopra la eloquenza, ed in tutto messaggiere delli Dei celesti, non meno lo esercita il nostro duca, il quale è mercurialissimo, sì per propria virtù nel negoziare con gli uomini eloquenti, e quanto egli come Mercurio sappia tanto di quella professione nel conoscere le miniere e sofistici, e quanto egli si diletti sapere e far fare esperimenti agli ingegni sottili, e quanti uomini abbi intrattenuti; che non mi pareva che senza Mercurio si fosse potuto finire questa opera.

Plutone

P. Gli è vero. Ma perché ci fate voi di qua Plutone, col cane Cerbero, il quale posa le braccia in sul bidente?
G. Le miniere, so che Quella sa che sono sotto la terra, delle quali Plutone è principe, e così le ricchezze ed i tesori, i quali i mercuriali non possono far senza esse, come sarebbe intervenuto a me, che se bene io sapeva fare queste stanze, e ancora delle più belle, non si potevano fare senza i danari, e le comodità, e le ricchezze del duca Cosimo principe di quelle, che per questa commodità godiamo oggi per questo caldo, questo piacevole ragionamento.”

 STANZA DI CERERE

“G. Il mio riposo è che seguitiamo, che io comincio adesso; ma passiamo drento a quest’altra stanza, se non v’è noia. Guardi Vostra Eccellenza in quel quadro lungo, quella carretta in mezzo di questo palco, con questo partimento di quadri; questa è Cerere, figliuola di Saturno e Opi, per servar l’ordine nostro, la quale si fa tirare da quei dua velenosissimi serpenti alati, tutta infuriata, co’ capelli sciolti, succinta, avendo in mano quella facella di pino accesa, va cercando per il cielo e la terra, di notte, scalza e sbracciata, Proserpina sua figliuola, la quale dicono che nacque di Giove suo fratello e di essa Cerere. Proserpina adunque bellissima giovane, sendo per i prati cogliendo fiori, fu rapita da Plutone, Iddio dell’inferno, e da lui menata laggiù, fu poi, come Vostra Eccellenza vede, cerca da Cerere. […]
P. Lunga storia e bella certo è questa; ma ditemi l’interpretazione sua, che avete passato tutta la stanza senza applicazione alcuna.
G. I significati sono assai, ma dirò brevemente. Cerere fu moglie del re Sicano e regina di Sicilia, dotata d’ingegno raro, la quale, veggendo che gli uomini per quella isola vivevano di ghiande e di pomi salvatichi, e senza nessuna legge, fu quella che trovò l’agricoltura e li strumenti da lavorar la terra, e che insegnassi partire agli uomini i terreni, e che si abitassi insieme nelle capanne. Intendendo io per ciò la cultivazione e lo studio fatto da Sua Eccellenza nella provincia di Pisa, dove ha levato le paludi, affossando i luoghi, facendo fiumi ed argini, e cavandone de’ luoghi bassi l’acqua con li strumenti atti a ciò, ha insegnato a lavorar la terra, e fatto abitare i populi, dove non solevano, insieme, alle ville, facendo fertili e abbondanti i luoghi, che prima erano spinosi, macchiosi e salvatichi; e non solo nel dominio di Pisa, ma nell’isola dell’Elba ha fatto il medesimo con lo aver murato case e mulini, e fatte comodità ed utili, inverso gli abitatori, grandissimi, bonificando quel paese ed altri vicini con tante comodità. Proserpina rapita da Plutone, intendo che ella sia le biade e semi gittati di Novembre ne’ campi, i quali stanno sei mesi rapiti da Plutone nell’inferno, cioè sotto la terra; e, se la temperanza del cielo non fa operazione in quelle, non possono maturarsi, se non per lo accrescimento del calore del sole; laonde se le comodità a quei populi che lavorano in quei paesi aspri, non fussono state date dal duca nostro, e che col calor del suo favore non fussono state riscaldate, non le condurrebbono a perfezione. Il cercare, col carro tirato da’ serpenti di Proserpina, non è altro che il continuo pensare e con la prudenza cercare per li altrui paesi di condurre di continuo de’ luoghi fertili le biade nel suo dominio per salute pubblica de’ populi e per abbondanza della sua città. La vergine Aretusa, che gli mostra la cinta, sono i cari e fedelissimi amici suoi, che li mostrano sempre la verità e non il falso, come fanno per il contrario i rei e maligni uomini. Elettra sua nutrice si lamenta del ratto di Proserpina; questi sono i servidori fedeli, che nelle avversità si dolgono del male, e nelle felicità si allegrano del bene. Di Trittolemo, allevato da Cerere col latte divino e fuoco eterno inceso, questi sono Vostra Eccellenza insieme con i vostri illustrissimi fratelli, nati e creati per ordine divino, e per i governi della città e de’ populi, di notte, e con latte divino nutriti, e col fuoco della carità incesi, per esser fatti immortali in eterno. Il donare di Cerere il carro a Trittolemo, è il dominio datovi dal duca vostro padre e signore, acciò possiate distribuire a’ vostri servidori ed amici il bene che Iddio e lui vi provvede; e Ascalafo converso in gufo s’intendono coloro che accusano, che doppo lo avere fatto si scellerato uffizio, sono conversi come spioni in allocchi e da’ populi derisi e uccellati e fino dai padroni loro.”

SALA  DEGLI OPI

“P. Eccoci in camera; come chiamate voi questa? Non gli date voi nome, come avete dato alla sala delli Elementi ed a quella di Saturno?
G. Signor sì, questa è detta della Dea Opi, o Berecinzia, o Tellure, o Pale, o Turrita, o Rea, o Cibele, che diversamente si chiami, basta che doppo la castrazione di Cielo, sendo questa stanza la terza, m’è parso che si debba trattare della moglie di Saturno, cioè di Opi, la quale s’è fatta in questo ovato del mezzo con questo ricco ordine di spadimento, acciò questi otto quadri faccino corona intorno a questo principale come vedete.
P. Io veggio ogni cosa, e tutto accomodato bene; e quello che mi piace è, che a una occhiata si vede ogni cosa senza muoversi; ma ditemi un poco, che femmina è quella che si vede in su quella carretta tirata da quelli quattro leoni?
G. Dirovvelo; questa è Opi che ha in capo, come vedete, quella corona di torre, che ha lo scettro in mano e la veste piena di rami d’alberi e di fiori; que’ sacerdoti, che sono innanzi al carro sonando le nacchere e le cimbanelle, son quelli Coribanti armati che suonano i cembali. Vostra Eccellenza guardi che il carro, dove ell’è sopra, è tutto d’oro e intorno a quello pieno di sedie vuote.
P. Tutto veggio; ma il suo significato vorrei sapere.
G. Volentieri; la corona in capo di torri facevano gli antichi a questa Dea, perché, essendo ella tenuta madre delli Dei e per conseguenza padrona del tutto, volevano dimostrare che ella aveva in protezione tutta la terra, che in essa altro non sono che le città, castella, e ville, che sono per il mondo se non corona di questo mondo e di essa terra; la veste, piena di fiori e di rami, dimostra la infinita varietà delle selve, de’ frutti e dell’erbe, che, per benefizio degli uomini, produce di continuo la terra; lo scettro in mano denota la copia de’ regni, e le potestà terrene, e che a lei sta di dar le ricchezze a chi più de’ mortali gli piace; il carro tirato da’ leoni ha varie significazioni secondo i poeti, ma, per quello che mi pare, volevano dimostrare, che sì come il lione, che è il re sopra tutti li animali quadrupedi, e che viene legato al giogo di questa Dea, così tutti li re e principi degli uomini si ricordino che essi sono sottoposti al giogo delle leggi.
[…]
P. Bonissima esposizione; or seguite il resto.
G. Or eccomi; questi quattro quadri, che mettono in mezzo questo ovato, sono le quattro Stagioni: quella giovane più rugiadosa e più gentile di tutte queste figure, con acconciatura di fiori, vestita di cangiante, questa è Proserpina, che si sta a sedere in quel prato fiorito di rose; e questi festoni, che ha di sopra pieni de’ primi frutti, denota essere la Primavera. Quest’altra, che segue in quest’altro quadro, è Cerere vestita di giallo, femmina più matura d’aspetto, con quel corno di dovizia pieno di spighe, e con quei festoni pieni di frutte grosse, l’aviamo finta per la State. Così quest’altro giovane in quest’altro quadro, d’età virile, vestito di verde, giallo, co’ festoni, e tante vite ed uve attorno, questo è Bacco, a modo nostro fatto per lo Autunno; e quest’altro, che segue in quest’altro quadro, vecchio e grinzuto, col capo coperto; che sta rannicchiato con le ginocchia, che ha il fuoco appresso, abbrividato di freddo, tutto tremante, è fatto per il Verno, cioè Vertunno, che anche a esso non manca li suoi festoni, sì come gli altri, pieni di foglie secche, suvvi pastinache, carote, cipolle, agli, radici, rape e maceroni.
P. Tutto ho considerato e veduto, ed è una ricca stanza, tanto più, quanto questi quattro quadri che avete dipinti ne’ cartoni, con questi due putti per quadro che si abbracciano insieme, mi satisfanno assai. Ma veniamo di sotto a ragionare del fregio, con questo partimento di stucco, e questi dodici quadri tramezzati da queste grottesche: cominciate un poco a contarmi gli affetti loro.
G. Questi sono figurati per i dodici mesi dell’anno, ma non sono nel modo ordinario, come sono stati dipinti dagli altri pittori moderni, che questa è invenzione che viene da’ Greci, che anticamente gli figurorno così; e perché ciascuno li abbia da conoscere più facilmente, se li è fatto sotto ogni mese il segno dello Zodiaco.”

SALA DI GIOVE

“P. Eccoci all’altra stanza; che chiamasti voi questa?
G. Chiamasi la camera di Giove, il quale fu figliuolo di Opi e Saturno, e partorito in un medesimo tempo con Iunone; dicono che e’ fu mandato nel monte Ida in Creta, oggi da noi nominata l’isola di Candia, e fu dato, come Vostra Eccellenza vede, a nutrire alle ninfe, alle quali, per paura che il padre non lo facessi morire, dalla madre Opi fu mandato; per il che piangendo, come avviene a’ fanciulli piccoli, perché il pianto non fussi sentito, facevano far rompere con i timpani, scudi di ferro, ed altri strumenti; del che quel suono sentendo le api, secondo la loro usanza s’adunorno insieme, e gli stillavano nella bocca il mele; per il qual benefizio Giove poi fatto Iddio concesse loro che generassino senza coito.
P. Ditemi, questa ninfa che siede in terra ed ha Giove putto in sulle ginocchia, e quella capra attraverso, che gli ha una poppa in bocca, che cosa è?
G. Quella ninfa è Amaltèa figliuola di Melisso, re di Creta, l’altra è Melissa ninfa, sua sorella: che una attende a farlo nutrire di latte, l’altra con quello fiadone di mele che ha in mano, lo va nutrendo; dove ella fu poi convertita in ape per la sua dolcezza; quel pastore, che tiene la capra, è di quelli del monte Ida, che guardava gli armenti.
[…]
P. Sono satisfatto; tornate alle storie. Veggio io qui nel fregio, che aggira intorno alla camera, tanti putti naturali ignudi, che reggono in varie attitudini il palco, e questi quattro paesi che v’è drento le figure piccole, definitemi quel che gli è.
G. In uno è Giove trasformato in cigno, del quale, abbracciandolo Leda, ed ingravidata di esso, ne nacque poi Castore e Polluce ed Elena; nelli altri vi sono sacrifizi di più animali, fatti dalli uomini al sommo Giove.
P. Tutto ho inteso; ma incominciate un poco a dichiararmi per che conto voi fate nutrire Giove a queste ninfe, e da questa capra, e guardato da questo pastore, con questa quercia dreto; che proprietà ha col duca mio signore?
G. Vostra Eccellenza sa, come dissi nella castrazione di Cielo, le ninfe esser nate di re; sono le due potenze attribuite a Dio, che la Sapienza è fatta per Melissa, ed Amaltèa per la Provvidenza, nutrice del duca nostro: che l’una, conversa in ape, gli va stillando in bocca il mele celeste, dinotando che tutti i lacci del mondo hanno da Melissa la sapienza; Amaltèa, che è la Provvidenza divina, trae dalla capra la sustanza del latte della carità per nutrirlo, il quale uscendo dalla capra, animale caldissimo, è d’ogni tempo abbondante e purgato da’ semi tristi, perché è nutrito da lei; e così, come per il benefizio degno d’obbligo, che riceve Giove da questa capra, giudicandolo degno di sempiterna memoria, messe la sua immagine in cielo fra le quarant’otto celesti, aggiugnendoci a questa capra, dal mezzo indrieto, la forma d’una coda di pesce, destinandolo nel zodiaco fra i dodici segni di quello, con la benignità di sette stelle sopra le corna, le quali denotano i sette spiriti di Dio, che hanno cura del duca, e per le tre virtù teologiche, e le quattro morali, che egli ama tanto, dandogli la carità verso il prossimo, la fede nel commerzio delli uomini, la speranza che ha nel grande Dio, poi la fortezza contro i nemici, la giustizia in coloro che escono con la mala vita fuora delle leggi, la temperanza e la prudenza: nel governo de’ suoi populi, ed a queste stelle ancora inclinano i sette pianeti, così sono fautrici alle sette arti liberali, delle quali si diletta tanto Sua Eccellenza”

SALA D’ERCOLE

“G. Gli è meglio: guardi Vostra Eccellenza questa camera è chiamata la camera d’Ercole, e queste sono le sue storie; questa di mezzo è quando Anfitrione obbligato nelle nozze di Alcmena, a far le vendette della morte del suo fratello; mentre che egli era a questa impresa, Giove presa la forma d’Anfitrione, come se venissi dallo esercito: Alcmena credendolo marito giacque seco, e così ingravidando ne nacque Ercole, il quale vedete che l’ho fatto in quella culla ignudo, che è perseguitato dalla matrigna Giunone, quale gli mandò dua serpi per divorarlo, mentre dormivano i padri; ed egli con le mani tenere presegli per la gola, e strangologli quivi; e Giove e Alcmena ignudi, che guardano la forza d’Ercole, che quasi scherzando dà la morte a que’ velenosi animali.
P. Mi pare questo un quadro molto pieno; ma perché avete voi fatto quell’aquila grande a piè del letto con quel fulmine negli artigli?
G. Per mostrare che quella figura, che siede ignuda in quel letto, è Giove trasformato in Anfitrione, e non Anfitrione.
P. Bene avete fatto; ma ditemi, in questo tondo io veggo Ercole, che ammazza quel serpente da sette teste.
G. Questo è quando alla palude Lema combatte con l’idra, mostro grandissimo e terribile, che aveva appiccato in su le spalle sette capi, che ogni volta che se ne tagliava uno, ne nascevano sette altri, ma da Ercole preso per ispediente di estignere col fuoco l’origine vitale, gl’insegnò morire. In questo altro quadro è quando e’ vinse il lione Nemeo, dannoso a tutto quel paese, orrendo e fiero animale; e dopo scorticatolo, portò sempre per insegna la pelle.
P. Quest’altra che seguita, dov’è la bocca dello inferno?
G. È quando Ercole, entrando nello inferno, prese per la barba il trifauce can Cerbero, il quale gli voleva vietar l’entrata, legandolo appresso con una catena di tre ordini di metallo, lo condusse di sopra; di là nell’altra storia è quando e’ tolse i tre pomi d’oro alle donzelle Esperidi, e che egli ammazzò il dragone focosissimo e velenoso, che gli guardava.
P. Certo che sono belle forze. Che veggo io fuggire da Ercole e con la clava ammazzare uno che tira una vacca per la coda?
G. Signore, questo è Cacco ladro, il quale stando nel monte Aventino tirava per la coda le vacche che egli rubava, acciò si vedessi alle orme de’ piedi quelle essere uscite di quello e non entrate.
P. Quest’altra?
G. È quando Anteo figliuolo della Terra, maestro della lotta, giucò con Ercole, il quale sendo in isteccato, e avendolo gittato in terra parecchie volte, e’ ripigliava nel toccar della madre Terra più forze; in ultimo levatolo di peso in aria lo strinse, e tanto lo tenne, che mandò fuori lo spirito. In questa che segue è quando egli ammazzò Nesso, centauro, che sotto spezie di farli servizio s’era ingegnato di menargli via la moglie Deianira; e questa altra ultima in questo palco è quando Ercole prese il toro, che Teseo vincitore aveva menato in Creta, il quale con la furia ed insolenza sua rovinava tutto quel paese. Ora si son finite di veder tutte queste storie del palco; abbassate gli occhi, e veduto che aremo le storie de’ panni d’arazzo, che son qui di sotto, dirò poi i significati di tutte.”

STANZE DEI MEDICI


“Giornata Seconda. Ragionamento Primo. Sala di Cosimo vecchio

G. Da che Vostra Eccellenza è venuta, […] bisogni ch'io dica la cagione, perché noi abbiamo messo di sopra e situato in que' luoghi alti le storie e l'origine delli Dei celesti, ed in oltre la proprietà che essi hanno lassù secondo la natura loro, perché essi in queste stanze di sotto hanno a fare il medesimo effetto; perché non è niente di sopra dipinto, che qui di sotto non corrisponda.
[…]
G. Dico così, che le stanze di sopra, che ora son poste vicino al cielo, e che non ci ha a ire sopra altra muraglia, né pitture, e mostrono (ed in effetto sono) l'ultimo cielo di questo palazzo, dove in pittura oggi abitano le origini delli Dei celesti; […] le creature quaggiù, le quali, quelle che per dono celeste fanno in terra fra i mortali effetti grandi, sono nominati Dei terrestri, così come lassù in cielo quelli hanno avuto nome e titolo di Dei celesti; e perché aviamo fatto lassù che ogni stanza risponda a queste da basso per grandezza della pianta simile, e per riscontro di dirittura a piombo, come ora Vostra Eccellenza vede in questa che noi siamo, nella quale sono dipinte tutte le storie del magnifico Cosimo vecchio de' Medici; lassù sopra queste si feciono le storie della madre Cerere (figura e significato di esso Cosimo), la quale Cerere fu quella che provvide industriosamente le ricchezze e le comodità alli uomini delli frutti della terra, e cercò di cavar dell'inferno la figliuola rapita dal crudele re Plutone, e la ridusse in terra per godimento de' mortali, facendo e col latte divino e col fuoco eterno Trittolemo immortalissimo, donandogli tutte l'entrate, i carri, e gli altri beni temporali, come si disse. Così il magnifico Cosimo, anzi santissimo vecchio, nuova Cerere, non mancò sempre provvedere alla sua città d'ogni sorte abbondanza e grandezza, e con ogni industria cavar da Plutone, Dio delle ricchezze terrene, i tesori, per servirne i suoi eredi, e nella necessità la sua patria, ed acquistarne poi il cognome di padre; instituì poi dopo di sé Trittolemo immortale con la successione divina in Pietro suo figliuolo, e nel magnifico Lorenzo vecchio, suo nipote, lassandogli eredi della grandezza di casa sua e del governo di questo stato, i quali, con civile naturale verso i suoi cittadini e servitori, recarono al nome loro fama, con lassare la eredità loro oggi viva in Sua Eccellenza illustrissima.

Stanza di Lorenzo il Magnifico:

«son quassù di sopra le storie della Dea Opi, adorata, e da tutte le sorti di uomini grandi e piccoli con doni e tributi riconosciuta per madre universale, così come Lorenzo in questa abbiamo veduto, che da tutte le sorti d'uomini è stato riverito, presentato e tenuto per padre de' consigli e di tutte le virtù; perché bisogna che Vostra Eccellenza vadia sempre col pensiero immaginandosi che ogni cosa, che io ho fatto di sopra, a queste cose di sotto corrisponda; che così è stata sempre l'intenzione mia, perché in ciò apparisca per tutto il mio disegno»



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